“Hungry Hearts” ovvero: esistono madri cattive?

Di Leonardo Cassone

Di Leonardo Cassone

Una recente notizia rimbalzata sulle testate nazionali riguardante due genitori toscani accusati di essere responsabili della malnutrizione del loro figlioletto, in quanto vegani, ricoverato d’urgenza in ospedale a causa di un malore, ci hanno fatto tornare in mente un film di questa stagione cinematografica, “Hungry hearts” firmato da Saverio Costanzo, distribuito nelle sale a gennaio. Un film disturbante. Sin dalla scena d’apertura: i due protagonisti, l’italiana Mina e l’americano Jude, forzatamente rinchiusi nell’antibagno di una toilette di un ristorante cinese, dove lei si ritrova, per errore, a lavarsi le mani, e lui invece, ha appena evacuato anche l’anima per un cibo avariato mangiato. Si ritrovano così chiusi tra la porta d’ingresso e quella del cesso, entrambe bloccate, immersi in una puzza insopportabile.

“Galeotta fu la merda”: i due si conoscono, si piacciono e si sposano. Poco dopo lei resta incinta, e qui il film prende la piega dell’horror, psicologico, quantomeno. E la sensazione di essere dalle parti di “Rosemary Baby” il capolavoro di Roman Polanski, già percepita nella grafica e nell’atmosfera dei titoli iniziali, diventa una realtà. Il taglio delle inquadrature e dei primi piani di Costanzo si avvicinano di moltissimo a quelli del cineasta polacco.

Durante una chiacchierata con una veggente, infatti, Mina si convince che la creatura che tiene in grembo, inizialmente non voluta, sia un “bambino indaco” (che poi è il titolo originale del romanzo di Marco Franzoso da cui è stata tratta la sceneggiatura), un essere con poteri speciali che va assolutamente protetto dalle impurità. Mina così diventa improvvisamente un’altra persona: rifiuta di far controllare periodicamente il suo bambino da un pediatra, coltiva gli ortaggi sul terrazzo di casa ed evita di nutrirlo con la carne e tutti i suoi derivati. Risultato: il bambino è sottopeso e non cresce. Quando suo marito Jude decide di opporsi ai suoi metodi, lei accetta. In apparenza, perché di nascosto somministra al piccolo un olio che non gli permette di assimilare tutti i cibi che suo padre gli fa mangiare con tanta pazienza. Il conflitto  sulla genitorialità tra i due si accende e sullo schermo comincia anche la parte più intrigante della pellicola: il disagio e il malessere delle due esistenze si tocca con mano e suscita un brontolio nello stomaco dello spettatore che attende da un momento all’altro lo scatenarsi delle “forze del male”. Che arriveranno, state tranquilli, sul finale, che naturalmente non sveleremo.

Un film che suscita emozioni sull’essere genitore e depositario della teoria “io so cosa è meglio per mio figlio” e riflessioni sulle moderne teorie nutrizionistiche, vegetariane o vegane che siano, i cibi Omg e via dicendo. Regia, montaggio e fotografia al pieno servizio dei due fantastici protagonisti, Adam Driver e Alba Rohrwacher, giustamente premiati con la Coppa Volpi all’ultimo Festival di Venezia. Il primo che pennella solo con i suoi sguardi la figura di un uomo che assiste allo sgretolarsi dell’amore per la sua donna, immaginata perfetta e indistruttibile ma che invece si rivelerà estremamente fragile. La seconda che rende credibile, in ogni inquadratura, la figura di una donna travolta da un vortice emotivo senza paro, dal momento in cui si scopre di diventare madre, e la sua dichiarazione di guerra, selvaggia e  sottile, alla conquista dell’amore per suo figlio. Inquietante, infine, la presenza di Roberta Maxwell nel ruolo di madre-suocera di Jude, che sarà la chiave dell’intero film.

Dino Cassone