Il regno d’inverno – di Nuri Bilge Ceylan

(di Carmela Moretti)

Con Haluk Bilginer, Melisa Sozen, Demet Akbag, Ayberk Pekcan, Serhat Mustafa Kiliç. Palma d’Oro per il miglior film al Festival di Cannes 2014

 

WinterSleep-2-poster-450Di solito, in fila ai botteghini per accaparrarsi i posti migliori, gli appassionati di cinema elucubrano sulla poetica del regista. O sulla carriera più o meno fortunata dell’attore protagonista. Per “Il regno d’inverno”, la preoccupazione è stata assicurarsi l’integrità della mente e del corpo. “Ma il pubblico esce sconvolto dalla sala?”, ha chiesto un anziano signore al cassiere, probabilmente timoroso di finire i suoi giorni su una poltrona nemmeno tanto comoda. La durata di un film spaventa. E difatti, 197 minuti avrebbero potuto trasformarsi in una sofferenza che non si augura nemmeno al peggior nemico. Invece, a parte la necessità di sgranchire gli arti inferiori per accertarne il regolare funzionamento, nell’ultimo capolavoro del regista turco Nuri Bilge Ceylan non è mai possibile staccare gli occhi dallo schermo. Ogni parola è pensata e schiude un vastissimo mondo di riflessioni e suggestioni.

Siamo in un villaggio sperduto dell’Anatolia, un luogo fiabesco che all’imbrunire sembra un presepe arroccato su una montagna. Qui, complice un piccolo ostello di cui Aydin (Haluk Bilginer) è proprietario, l’umanità si squaderna nei suoi meandri più profondi (anche nella letteratura spesso l’albergo è stato luogo privilegiato per uno sguardo lucido sul mondo). Aydin è un uomo maturo e dall’alto della sua rettitudine offre consigli a destra e a manca, come se fosse Maometto. Sua sorella Necla (Demet Akbag) è una donna “tutta pensiero”, impegnata a teorizzare una nuova filosofia del bene. Nihal (Melisa Sozen), la giovane moglie di Aydin, alle opere di bene si dedica concretamente, ma solo per dimostrare a sé stessa di valere qualcosa. Così, conversazione dopo conversazione, l’iniziale patina di moralismo crolla del tutto e ogni cosa si frantuma inesorabilmente -un vetro, il rapporto tra cognate, la relazione tra Aydine e sua sorella, il matrimonio con Necla- ma sempre con ironia e senza scadere nel melodrammatico.

Enorme, dunque, è il debito del film nei confronti del teatro e, in particolar modo, del dramma borghese e dello psicodramma coniugale. La scenografia è curata nei minimi dettagli e diviene specchio della psicologia dei personaggi; le conversazioni tra i protagonisti, che si svolgono nei salotti e quasi sempre al chiarore di una lampada, sono la strada maestra per riportare alla luce la cattiveria e le ipocrisie dell’essere umano. Solo una domanda continua a martellare nella mente, dopo aver goduto per quasi tre ore di scenari incantevoli e di una storia tratteggiata con raffinatezza: chi è quel “geniaccio” che traduce in italiano i titoli dei film? Nel passaggio dall’originale “Winter sleep” a “Il regno d’inverno” s’è perduta la sfumatura del torpore che obnubila le coscienze.

Carmela Moretti