La natura selvaggia ai tempi di Mao

Di Leonardo Cassone

Di Leonardo Cassone

Ritorno alle avventure di chiaro stampo “animalista” ed “ecologista” per il regista francese Jean-Jacques Annaud, dopo “L’Orso” e “Due fratelli”. E lo fa con un film che pone riparo, dopo tanti anni, allo sgarbo fatto alla Cina con il suo “Sette anni in Tibet”, datato 1987 e che valse al cineasta l’appellativo di “persona non gradita dal regime”.

La pellicola, dal titolo “L’ultimo lupo” è tratta dal libro più letto nel Celeste Impero dopo “Il libretto rosso” di Mao Tse Tung, quel “Wolf Totem” scritto da Jiang Rong (il cui vero nome è Lü Jiamin), su sceneggiatura dello stesso Annaud.

Ambientato in Mongolia negli anni ’60, è la storia di uno studente di Pechino, Chen Zhen, che qui viene inviato, assieme ad un amico, per insegnare ad una tribù di pastori nomadi. Lo scontro tra i due mondi è inevitabile, ma a sorpresa è proprio lo studentello ad imparare molte cose, soprattutto su quello che viene considerato l’animale più riverito della steppa: il lupo. Tanto da desiderare di addomesticarne uno. Un giorno, infatti, lo studentello trova un cucciolo e decide di crescerlo, di nascosto, nella sua capanna. Inevitabile il forte legame che si instaurerà tra l’uomo e l’animale; legame che sarà minato da un ufficiale del governo, senza scrupoli, che ha intenzione di sterminare tutti i lupi della zona.

Nonostante lo “scempio” della distribuzione italiana che anche questa volta non si è smentita, cambiando il titolo e sopprimendo “totem”, una parola chiave dell’intero film, la pellicola di Annaud è di ampio respiro. C’è di tutto: avventura epica, natura selvaggia e sconfinata (a cui rende merito la superba fotografia di Jean-Marie Dreujou), ecologia, animalismo, storia politica, antropologia e chi più ne ha più ne metta.

Ma il protagonista assoluto è lui: il lupo. Quel “Totem”, così ben espresso nel titolo originale del romanzo, un vero e proprio Dio per le popolazioni nomadi, che incute terrore e rispetto, odio e fascinazione. Che non fa sconti a nessuno, esattamente come molte delle scene realizzate dal cineasta francese, che risultano crude e violente. Perché questo è un film davvero violento dove, nonostante tutto, si finisce per parteggiare per gli animali, quegli splendidi esemplari con gli occhi chiarissimi e la pelliccia dai bellissimi colori.

E poco disturba il fatto che i personaggi umani siano stati caratterizzati, probabilmente con consapevolezza, in maniera abbastanza superficiale, come, del resto, era già accaduto ne “L’orso”, che questo film molto ricorda. Lasciando sullo sfondo il macigno della Storia: la Cina della Rivoluzione Culturale, dove «si fa quel che comanda il Partito». E dando libero sfogo al sentimentalismo puro, come le struggenti immagini finali.

Dino Cassone