Pietro Caramia e Michele Ciavarella, in due per costruire la più bella “stanza dei sogni” per “I viaggiatori della terza età”

Di Dino Cassone

Alcuni personaggi si ritrovano – dopo aver ricevuto un invito scritto – rinchiusi in una stanza senza finestre e senza porte, che potrebbe essere una sala d’aspetto. Già, ma di cosa? Un limbo. «La vita a volte è questo. Ci guardiamo attorno e vediamo facce sconosciute». Come riuscire a convivere per ben sei giorni con gli altri, con le loro abitudini e con i loro difetti? Comincia per tutti – grazie anche alla maldestra complicità di alcuni angeli – un viaggio verso i meandri più intimi dell’anima. Perché quella stanza «è come il nostro cuore quando rinuncia agli altri. Eccola, la libertà: è la nostra parola che cerca le parole degli altri; è la nostra mano che cerca la mano degli altri; è la nostra vita che incontra la vita degli altri».

Questa in sintesi la trama de “La stanza dei sogni”, andato in scena nei giorni scorsi all’Auditorium Bianco Manghisi – Teatro dei Cappuccini di Monopoli e che ha visto coinvolti “I viaggiatori della terza età”, persone comuni del territorio, tutte rigorosamente “dagli anta in su”. Il classico saggio di fine anno di un laboratorio teatrale “speciale” e pienamente riuscito organizzato dalla locale associazione “Apad”, nata nel 2003 «per gestire adozioni a distanza e progetti nei Paesi in via di sviluppo, oltre a quelli sul territorio destinati a migranti, senzatetto e anziani».  

A curare il laboratorio e a dirigere la commedia messa in scena è stato l’abile e paziente – sfidiamo chiunque a tenere a bada un gruppo così vispo, vedere per credere! – Pietro Caramia, nativo di Monopoli, che oltre agli studi di recitazione e regia a Roma ha frequentato anche un master presso l’Università “La Sapienza” in “Teatro nel sociale e drammaterapia” proprio per lavorare come conduttore di laboratori teatrali. Lo stesso ha definito il progetto “teatro sociale”, cioè «sinonimo di laboratorio teatrale fatto per utenti non professionisti in ogni ambito sociale – ragazzi, adulti, anziani, detenuti, psichiatrici e disabili – per indicare il processo e il percorso laboratoriale che coniugano pratiche teatrali e pratiche terapeutiche». Insomma terapia – anche se il teatro «non si pone come “strumento clinico di terapia”, ma semplicemente come cura di sé, crescita personale, emotiva e relazionale» – a mediazione teatrale. Dei mesi indimenticabili trascorsi con l’arzilla compagnia ci assicura Pietro, racchiusi in tre parole che raccontano tutto: grinta, determinazione e poesia.

E di poesia e amore è intriso il testo scritto – su un’idea dello stesso Caramia – da Michele Ciavarella, attore e autore di Noicattaro. Un testo agrodolce, spesso esilarante, cucito sulla pelle e sulle emozioni vissute dei neofiti attori, come il migliore degli abiti: quello della festa. Evitando con grazia e delicatezza di cadere dal filo pericoloso “dell’operazione nostalgia”. Un bell’esempio di come il dialogo tra giovani e anziani può essere proficuo e soprattutto sorprendente. Anche se Michele tende a non farne una questione di “categorie”: «Siamo in un momento storico in cui individualismo e solitudine sono un cancro sociale. Il problema di assenza di dialogo è trasversale e non solo un problema tra adulti e giovani. Vero è che esiste un problema politico che riguarda la valorizzazione della figura dell’anziano e che porta a dimenticare il suo valore come memoria e come coscienza storica della società. Si perde sempre qualcosa quando non si ascolta: io mi sono arricchito tanto; tutto quello che ci può dare entusiasmo nella vita è relazionarsi agli altri. In realtà per me gli attori sono stati occhi e anime: un rapporto paritario crea ponti, connessione e ricchezza».

Un’esperienza dunque che gli ha regalato una gioia immensa: «vederli in un progetto corale, in un fenomeno di corresponsabilità, di mutuo soccorso, di appoggio di comprensione e perché no anche di sana competizione, guidati da loro sfrenata e sorprendente giovinezza, da un’infinita infanzia. Ho provato tanta felicità nel sentire dalle quinte le risate del pubblico – è la sua prima commedia comica –, avevo paura di non riuscire. Tutta quest’esperienza mi ha fatto capire che non c’è nulla di più bello che rendere felici gli altri».

Dino Cassone