Storia di un postino morto troppo presto

(di Carmela Moretti)

È stato molto amato per quella sua interpretazione, che ancora oggi emoziona in ogni singolo gesto o espressione. Ma chissà in quanti conoscono la sofferenza fisica che ha dovuto patire Massimo Troisi per girare Il postino!

Il regista Michael Radford aveva conosciuto Troisi alcuni anni prima de Il postino, quasi per volontà del destino. Stava girando con pochi soldi la sua prima pellicola, “Another Time, Another Place”, e qualcuno propose di affidare un ruolo a una star di Napoli che recitava in un modo assai strano. Per l’appunto, Massimo Troisi.

“Era il mio primo film e avevamo un basso budget”, spiega il regista. E difatti, quando l’inesperto Radford telefonò e lesse la sceneggiatura a Massimo, questi rifiutò con una giustificazione da furbetto e in un italiano arrancato: “No, Michael. Non posso venire in Scozia. Fa troppo freddo. Non mi sento bene”. Sicuramente, a dissuaderlo era stata anche l’idea di fare un film con un regista pressoché sconosciuto.

Ma contrariamente ad ogni previsione, “Another Time, Another Place” ottenne un grande successo soprattutto in Italia. E allora fu Massimo a fare dietro-front.

Con umiltà, l’attore richiamò il regista britannico proponendogli di trarre un film dal romanzo Il postino di Neruda del cileno Antonio Skármeta, che avrebbe voluto ambientare a Napoli. E in quell’occasione Radford provò a vendicarsi rispondendo ironicamente: “No, non posso venire a Napoli. Fa troppo caldo”.

Ma ormai tra i due la scintilla era scoppiata; il sodalizio professionale ebbe inizio e regista e attore si frequentarono per stendere la sceneggiatura.

Tuttavia, le complicazioni si avvertirono appena arrivati sul set. I tecnici seguivano solo ed esclusivamente le indicazioni di Massimo, che per di più procedeva per conto proprio, entrando in scena e dandosi a lunghe improvvisazioni.

Per la troupe Radford non contava affatto, la divinità era Troisi.

Fu necessario, allora, un intervento deciso del regista per ripristinare l’ordine: “Non si può continuare così, Massimo. Se vuoi fare un film tuo, fallo. Ma senza di me. Abbiamo scritto una bella sceneggiatura, perché non diciamo almeno le battute che abbiamo scritto?”.

Tre costosissimi giorni di girato finirono nel cestino, ma finalmente l’attore comprese la lezione e da quel momento seguì più o meno le battute scritte. In più, ogni scena era perfetta già al primo ciak, grazie alla sua recitazione sottile e dimessa che il regista amava molto.

La sua salute, però, continuava a destare preoccupazioni e giorno dopo giorno inevitabilmente condizionava il set, costringendo Radford a ingegnarsi per portare a termine il film. Massimo si affaticava come un ottantenne e per questo poteva girare soltanto un’ora al giorno e seduto, dopo le cinque di pomeriggio. La maggior parte del film fu girata con un sosia, un allenatore sportivo calabrese che era stato scelto perché aveva le orecchie “strane” come quelle dell’attore napoletano; orecchie che consentirono di usarlo in ogni controcampo.

Quindi, quando Mario Ruoppolo è di spalle, sia sulla bicicletta sia in piedi, non è mai Troisi.

“Portare a termine il film è stato un miracolo”, dichiara Radford, “Massimo sul set purtroppo aveva la salute di un uomo anziano. Ma lavorare con lui è stata una ricchezza, era straordinario vederlo recitare”.

Anche nel momento della meravigliosa scena finale, l’attore se ne stava già agonizzante nel suo letto. Da lì, lesse affaticato la lista dei suoni dell’isola da inviare a Pablo Neruda e regalò al mondo una delle scene più commuoventi del cinema italiano.

Carmela Moretti