Un piccione seduto su un ramo riflette sulla esistenza (Roy Andersson)

di Luciano Aprile

“La filosofia è impercettibile. Essa non è mai negli scritti dei filosofi – la si sente in tutte le opere umane che non concernono la filosofia ed evapora non appena l’autore VUOLE filosofare. Essa appare nell’unione dell’uomo e di ogni soggetto o scopo particolare. Sparisce non appena l’uomo vuole perseguirla” (Paul Valery)
Secondo questo aforisma il cinema dovrebbe essere filosofico senza volerlo essere: e infatti lo è quasi sempre. Ma dire che qualcosa è filosofico è un eufemismo, perché tutto lo è, secondo le parole di Valery. Ma il novanta per cento di tutto è merda, diceva lo scrittore di fantascienza Theodore Sturgeon (che concludeva il suo pensiero chiosando “dunque anche il 90% della fantascienza”).
Bene, questo film è filosofico. Nel senso che VUOLE ESSERE FILOSOFICO. Risultato: evapora! Per usare il paradosso di Valery. In senso cinematografico: annoia, infastidisce. Non che sia brutto: la fotografia è certamente all’altezza (autoriale, la si potrebbe definire), si ispira alla pittura (il primo che viene in mente è Edward Hopper, con i colori virati verso il sabbioso, il polveroso, l’arido) e in particolare potrebbe ricordare certe inquadrature del regista danese Dreyer, o magari del Bergman, guarda caso anche lui svedese, de “Il posto delle fragole”). Il giallino, colore della mediocrità, della apatia, della depressione.
Non c’e movimento alcuno nella trentina (circa) di sequenze che compongono il film: una sequela di scene a inquadratura fissa, secondo la più classica delle prospettive, quadri ‘viventi’ (si fa per dire) in cui gli stessi attori o sono fermi o si muovono con estrema parsimonia. Viene il mente il teatro: naturalmente quello di Beckett. Domina l’insensato, l’assurdo, lo spaesamento; il ridicolo certo: ma quel tipo di comicità fredda e straniante che fa sentire persino a te stesso (che hai appena riso) il suono della tua risata come inappropriato, fuori posto. Humor nero, si dice, o macabro. E infatti i tre primi quadretti si intitolano “Incontri con la morte” e mostrano la banalità del morire, nel tinello di casa propria stappando una bottiglia o al bar, o in una squallida (giallina appunto) stanzetta d’ospedale mentre i tuoi figli si contendono i tuoi ultimi miseri averi che avevi deciso di portarti nell’aldilà. Si ride per il grottesco estremo di una scena collettiva, ambientata in un locale, in cui, con il cliente appena crepato sotto il bancone, la barista chiede ad alta voce chi vuole approfittare della consumazione (già pagata) dal cliente ormai incapace di bersi la sua birra, visto chè morto e disteso sul pavimento. Pupazzi, marionette dentro una trama inerte, immobile, tautologica: il messaggio è questo (che la vita fa schifo)? Penso di sì; e allora la risata richiesta dal regista, come ‘a comando’ non può che essere strozzata, liberatoria come un singhiozzo. Poi si succedono, come in catalogo postal market, altre scenette ugualmente ‘nere’,ugualmente banali, vischiose come la ‘nausea’ di Sartre.
Non che non ci siano le ‘sorprese’: alcuni ‘quadretti’ sono tanto impensabili da essere incongrui rispetto allo stesso film: le truppe di un esercito svedese del XVII secolo, in partenza per la guerra contro i russi, irrompono in un bar in cui pochi clienti ascoltano un juke-box. In un laboratorio, ovviamente freddo e giallino, una povera scimmia è crocifissa in un marchingeno scientifico,mentre la sperimentatrice blatera convenevoli di circostanza al telefono. L’intera, mostruosa opera di assoggettamento perpetrata dall’imperialismo occidentale è racchiusa in un quadretto in cui degli schiavi ‘negri’ e nudi in catene vengono fatti entrare in una specie di enorme bossolo surriscaldato, roteante su se stesso che produce musica mentre arrostisce le vittime al suo interno. Tutto sotto lo sguardo di una rappresentanza di spettatori occidentali la cui decrepitezza e bruttezza dovrebbero rappresentare la decadenza e la perversione dell’ intero Occidente, il suo marciume storico. Sarà questo il senso del film?
Detto della assurdità della Storia, c’è ovviamente anche quella della singola esistenza umana: nel film rappresentata al meglio da una coppia di improbabili venditori di attrezzi per il carnevale, tanto somiglianti ad una qualunque coppia del cinema comico di tutti i tempi (Gianni e Pinotto?, Stanlio e Ollio, Banfi e De Sica?) che ripetono fino alla nausea la battuta che magari ci ha fatto ridere solo la prima volta (la risata-ghigno di cui sopra!) “Vogliamo far divertire la gente”, mentre sbrodolano pateticume e ghiacciano il sangue dalla tristezza.
C’è anche una fermata dell’autobus dove, come diceva ancora Sartre, le persone non fanno che un numero, non certo un ‘gruppo in azione’, perchè non c’è niente che le tenga insieme: ma, per il regista, qualcosa c’è, ed è la disgustosa banalità dell chiacchericcio (come direbbe Heidegger), cioè quel ‘così si dice’, ‘così si fa’ nella banalità quotidiana, qui rappresentata dall’argomento ‘ma oggi è mercoledì o giovedì’ la cui insulsaggine è pari solo a quella della signora che, dopo aver pagato il biglietto per il film, in procinto di accomodarsi in poltrona, a me, che me ne sto andando chiede: “Ma com’è il film, è vero che è bruttissimo?”. A me che mi sono fatto come scopo della vita quello di non raccontare i film e sopratutto di non darne mai un giudizio ad uno sconosciuto! Allora le ho risposto: “Credo sia uno di quei film che ti rimuginano dentro, dopo. A me, forse, piacerà domani”.

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