“Dark Places – Nei luoghi oscuri”, quando la menzogna aiuta a sopravvivere

Di Dino Cassone

Di Dino Cassone

Uscito nelle sale italiane a fine ottobre, “Dark Places – Nei luoghi oscuri” è il classico film da vedere una piovosa domenica pomeriggio, che merita una successiva analisi, magari davanti ad una bella pizza e una birra. Intanto perché non offre un finale (che non sveleremo) consolatorio, anzi. Poi perché, ciascuno di noi, può vantare il suo personale “luogo oscuro”, discarica “di cose che sarebbe meglio cancellare”. Se fosse così semplice.

Nicholas Hoult, left, as Lyle Wirth and Charlize Theron as Libby Day in a scene from the motion picture "Dark Places." Credit: Doane Gregory, A24 [Via MerlinFTP Drop]

Nicholas Hoult, left, as Lyle Wirth and Charlize Theron as Libby Day in a scene from the motion picture “Dark Places.” Credit: Doane Gregory, A24 [Via MerlinFTP Drop]

La trama. Libby Day (interpretata dalla sempre più brava Charlize Theron, che sembra ormai votata a non utilizzare più la sua immensa bellezza), è l’unica sopravvissuta, quando era una bambina, di un massacro che ha visto morire la madre e due sorelle. Dell’omicidio multiplo la piccola, sottoposta a un interrogatorio alquanto equivoco, accusa il fratello maggiore Ben, che è condannato all’ergastolo. Trascorrono venticinque anni e Libby, ormai adulta e in balia di una vita “trascinata” a raccattare soldi per sopravvivere, grazie alla sua triste fama, s’imbatte con un gruppo ossessionato dai delitti irrisolti, chiamato “Kill Club” e capeggiato da Lyle Wirth (interpretato da un algido Nicholas Hoult, bello senz’anima). Il gruppo crede fermamente nell’innocenza di Ben e, dietro compenso, convince la tormentata Libby a ripercorrere quei drammatici fatti, costringendola a visitare “quei luoghi oscuri”, alla ricerca della verità. Che verrà fuori, dopo un’angosciante ricostruzione del puzzle, come un rigurgito acido.

Il regista francese Gilles Paquet-Brenner (già autore dell’apprezzabile “La chiave di Sara”), ha tratto il film da un romanzo di Gillian Flynn, autrice tra l’altro de “L’amore bugiardo”, soggetto per lo splendido film di David Fincher. E come quest’ultimo, si basa sull’alternanza nervosa di salti temporali tra passato e presente, anche se manca il tocco divino di Fincher, a cominciare dalla conturbante fotografia, che in questo film porta a casa il suo compitino con la sufficienza piena.

Nonostante tutto, la pellicola riesce a trasmettere, grazie a un montaggio incalzante, tutto il malessere della protagonista (e questo grazie alla sua prova recitativa) e l’incertezza che la verità è sempre ad un passo da te e sai che farà un male cane. Il merito del film è di suscitare riflessioni aspre sulla famiglia, sui legami di sangue (profondi o superficiali che siano) e sull’importanza della menzogna come strumento di distruzione. Di materia grigia ancor prima che di rapporti umani.

Dino Cassone