“Arrival” di Denis Villeneuve

Di Dino Cassone

Si può fare un film d’autore trattando di fantascienza? Questa la domanda che chi scrive si è portato dietro uscendo dalla buia sala mentre scorrevano i titoli di coda di “Arrival”, l’ultimo lavoro cinematografico diretto dal canadese Denis Villeneuve (amatissimo per il suo precedente “Sicario”), presentato al Festival del Cinema di Venezia e arrivato nelle sale italiane appena dieci giorni fa. Sono otto le nomination ai prossimi Oscar (il 26 febbraio), quasi tutti in categorie così dette minori, a parte quelle per il miglior film, miglior regia e migliore sceneggiatura non originale.

“Arrival” è un film strano, che parte abbastanza bene (ripercorrendo però le tracce di “Incontri ravvicinati del terzo tipo” da cui tutto è partito), per poi perdersi dentro se stesso, abbandonando i presupposti fantascientifici per percorrere le impervie strade del film autoriale, lasciando per questo motivo una sensazione di freddezza.

L’assunto su cui si basa il film (tratto da “Storie della tua vita” di Ted Chiang), è una teoria del filosofo dell’Ottocento von Humboldt sui cerchi che ogni lingua traccia intorno al popolo che la parla. E di strani cerchi è appunto composto il linguaggio degli alieni (orribili, in verità: sembrano dei polpi che scrivono schizzando il loro inchiostro su gigantesche vetrate), sbarcate su astronavi a forma di uovo di Pasqua (sic!) in dodici punti del globo terrestre. Il compito di trovare punti di comunicazione è affidato alla dottoressa Banks (brava Amy Adams, manco a dirlo), la migliore linguista al mondo, e al fisico interpretato da Jeremy Renner che insegue teorie numeriche opposte a quelle più umanistiche della Banks. I due però, superate le reciproche perplessità, riusciranno a intuire il loro complesso alfabeto e a comunicare con gli alieni mentre le potenze mondiali (trascinate dalla pericolosa Cina) sono sull’orlo di una guerra senza ritorno.

E qui la parte più fantascientifica e lineare del film di Villeneuve, che lentamente, vira verso la filosofia sciorinando tesi sulla comunicazione e sul pensiero e complicandosi la vita. Come se non bastasse, il film si sdoppia anche sul piano temporale: il tempo non è più passato presente e futuro, ma diventa circolare (e qui casca a fagiolo il paragone al superbo e cervellotico “Interstellar” di Nolan). Per lo spettatore, però, comincia il delirio: le immagini della protagonista con sua figlia vengono prima o dopo? Si tratta di flashback che servono solo per confondere le idee o la Banks sta viaggiando nel tempo e nello spazio? O sono solo sogni? Perché già a questo punto l’occhio del regista, senza che ce ne accorgiamo, si è già spostato sulla storia personale della protagonista tralasciando le astronavi e i suoi occupanti fino a farli incrociare nuovamente con lei sul finale del film, telefonato, lento e soporifero. Il risultato è una magnifica torta, esteticamente parlando, in cui si è sbagliata la dose degli ingredienti.

Dino Cassone