CAPATOSTA

Crest – Teatri Abitati
CAPATOSTA
scritto da Gaetano Colella
regia Enrico Messina
con Gaetano Colella e Andrea Simonetti
composizione sonora Mirko Lodedo
scene Massimo Staich
disegno luci Fausto Bonvini
datore luci Vito Marra
in collaborazione con Armamaxa teatro

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Siamo nello stabilimento più grande d’Europa, l’Ilva. Siamo in uno dei tanti reparti giganteschi della fabbrica, Acciaieria 1 reparto RH. Qui l’acciaio fuso transita per raggiungere il reparto della colata e gli operai sono chiamati a controllare la qualità della miscela. La temperatura è di 1600 gradi centigradi.

Due operai sul posto di lavoro. Il primo è un veterano, venti anni di servizio alle spalle e un carattere prepotente, di chi si è lavorato la vita ai fianchi e il poco che ha lo difende coi denti, compreso il suo piccolo desiderio: fuggire da Taranto, coi suoi figli, per non tornarci più. Il secondo è una matricola, un giovane di venticinque anni appena assunto nello stabilimento. I due potrebbero essere padre e figlio.

In questo stabilimento dal 1962 ci sono generazioni di operai che si avvicendano, si confrontano, si scontrano e si uniscono. I padri hanno fatto posto ai figli e ai nipoti senza che nulla sia intervenuto a modificare questo flusso di forza lavoro. Si sono tramandati saperi ed esperienze così come usi e abusi, leggi tacite e modi di fare. Sembra che in questo scenario nulla sia destinato a mutare, che i figli erediteranno fatica e privilegi dei padri. Ma è davvero così?

Nuova drammaturgia, teatro civile… etichette possibili per una urgenza che non vuole essere chiusa o bollata con un’etichetta, ma vuole essere un prendere parola, restituire un sentimento di dolore e di impotenza insieme, condividendolo con una città e non solo, come solo il teatro può fare. Solo i gesti, i volti, le voci di attori possono riuscire a raccontare il sangue di una città ferita e divisa. Oltre l’informazione.

note di drammaturgia

Sono andato a parlare con gli operai. Per giorni, settimane. Solo loro potevano restituire la dimensione del dramma, di quella frattura insanabile fra salute e lavoro che si sta vivendo in maniera sempre più violenta negli ultimi mesi. Solo così ho capito che il mondo operaio non è come lo vediamo in tv, quando scorrono quelle interviste in cui sono schierati di fronte alle telecamere con gli elmetti in testa e la faccia incazzata. Non è un blocco unico di coscienze allineate su una posizione. Ho trovato invece un universo pieno di uomini soli, spesso sbandati, che non sanno esattamente cosa fare né cosa sarà di loro, che non hanno punti di riferimento, che non conoscono i loro diritti e altri pronti a inventarne di nuovi; un universo profondamente lacerato da posizioni molto distanti, fra chi medita soluzioni, chi vendette, chi rancore, chi invece non se ne frega niente come non se n’è mai fregato. Chi pensa di scappare via, chi di lottare. E’ da queste figure che sono nati i due personaggi di questa storia. Perché incarnano lo spirito di una comunità intera e, probabilmente, di tutta la nostra nazione lacerata fra l’indifferenza da un lato e la voglia di cambiare dall’altra.
Gaetano Colella

note di regia

L’impatto quando ci arrivi di notte dalle colline del nord Brindisino è stupefacente. Un corpo unico: si confondono la fabbrica e la città, si mescolano, si compenetrano. Sembrano amanti distesi sul golfo in un abbraccio che pare non possa sciogliersi mai. A guardare gli sbuffi, le improvvise gigantesche nuvole di fumo che si alzano dai camini sembra di sentire il respiro affannoso del loro amplesso; il respiro delle molte vite che li abitano, li fanno vivere, li nutrono e se ne nutrono da generazioni. Generazioni, che si succedono, e scorrono in quei due corpi come sangue vivo. Padri, madri, figli.
Ma quando ci arrivi di giorno, dalle stesse colline, il panorama cambia. L’abbraccio sembra trasformarsi in una morsa, un morso anzi. Soffocante. I camini altissimi, le immense costruzioni dei corpi della fabbrica, gli spazi sterminati occupati da distese di coils che non ce la fai a contarli, sono invadenti, la schiacciano la città, la costringono in un angolo; alle corde. Velano tutto di un rosso che non sa risplendere, polvere di una passione ormai sbiadita; di una promessa non mantenuta. E quell’abbraccio allora svela le contraddizioni, il tradimento, le divisioni ormai profonde e le lacerazioni di quei corpi che non si amano più. Generazioni che per troppo tempo non si sono parlate, si sono tradite. Padri che hanno scelto per i figli; madri che non hanno saputo lasciarli andare. Figli che, mollemente, si sono adagiati a subire il quotidiano senza speranza di una storia finita ma che non si risolve mai.
La luce del giorno è crudele, spietata, non lascia spazio al dubbio: il fumo dei camini è veleno, le costruzioni degli impianti sono “bruttezza”, il corpo della città disfatto, cadente, malato.
Bisogna che qualcosa accada, che si rompa quel precario equilibrio eppure immoto.
Bisogna che si separino gli amanti.
Bisogna che si scontrino quei padri e figli.
Bisogna.
E per farlo serve che qualcuno cominci a urlare.
Enrico Messina

estratto stampa

[…] Sull’accordatura attenta della regia di Enrico Messina si passa, in un delicatissimo equilibrio, da toni ironici a sfumature più drammatiche, senza mai calcare la mano su nessuno dei registri possibili, proprio perché tutto è straordinariamente vero a pochi metri da quel palcoscenico […] Nello scambio di battute tra i due i nodi drammaticamente problematici di quella situazione vengono espressi proprio in faccia a quella stessa società che li vive.
Antonio Audino – Il Sole24ore

A prenderci a pugni nello stomaco è stato Capatosta […] Un esempio di teatro sociale fatto con mezzi rigorosi (e non minimi) e recapitato con una regia e un’esecuzione eleganti, non ingombranti, al servizio di una denuncia frontale sì dello scandalo industriale, ma ancor di più del terreno (sotto)culturale che lo riceve, tra l’utopia di una riaccesa miccia di lotta di classe e l’ignavia in cui gli operai rischiano di scivolare.
Sergio Lo Gatto – Teatro e Critica

I temi che tocca questo spettacolo sono innumerevoli e non solo legati ai problemi dell’inquinamento, dello sfruttamento, delle malattie dell’industria tarantina: questioni come la (presunta) assenza di una classe operaia […], dell’impossibilità della lotta di classe, della sostenibilità delle proprie scelte di vita e delle reazioni rispetto a quelle altrui travalicano di frequente il caso Ilva – seppure profondamente radicato e radicante nella messinscena – per parlare molto più ampiamente del presente. E delle possibilità di scampo.
Roberta Ferraresi – Il Tamburo di Kattrin

Uno spettacolo di intenso approdo. Il lavoro attorale fisico e verbale, gesto e parola composti senza mischiare i piani e ben definendo ritmi e tempi di commistione, produce una compiutezza che è snellezza di cifra, intelligibilità che non vuol dire semplicistico, ma funzione per alta fruibilità.
Emilio Nigro – Rumor(s)cena.com

Uno scontro fisico, passionale, generazionale, valoriale, tra il benessere acquisito da difendere ad ogni costo, anche rimettendoci la salute e la vita, ed i sogni di rivoluzione con i ruoli invertiti rispetto alla stereotipata visione dei giovani come svuotati e passivi, dediti soltanto allo sport dello smart phone. Un teatro necessario.
Tommaso Chimenti – Il FattoQuotidiano

[…] racconta con la semplicità e la forza di parole, volti e gesti quotidiani, quelli dei tanti operai chiamati a scegliere tra il lavoro e la vita, il dramma di una città ferita e divisa. Sono come due ventricoli di un cuore, la città e lo stabilimento, in un movimento continuo e oscillante tra vita e morte, agìto sulla scena, con una apparentemente disarmante semplicità, da due uomini. Un sogno divenuto incubo si palesa nella banalità delle azioni quotidiane che diventano balletto quando i due operai si muovono ricordando delle marionette svuotate da ogni consapevolezza.
Elisabetta Reale – Klpteatro

Questo spettacolo, che in italiano significherebbe “testa dura”, è profondamente commovente. Il pubblico ride. Ma il vortice conclusivo, simbolicamente rappresentato da una poltrona girevole, è coinvolgente.
Emanuela Ferrauto – dramma.it

Colella si rivela maestosa marionetta agente, memore dell’eredità attoriale eduardiana, maschera iterante di un “come fa un uomo a diventare una cosa?”. Il testo di Colella nasce da una profonda riflessione […] e trova rispondenza in una storia violenta che ripercorre i meccanismi quotidiani di sopravvivenza, raccolti attraverso le generose testimonianze di operai dell’Ilva “amanti uniti in un abbraccio letale”
Vincenza di Vita – aTeatro.it

Un gran bel problema, insomma, portato in scena da Gaetano Colella e Andrea Simonetti, con la regia di Enrico Messina. E mentre le coscienze si animano in sentimenti contrapposti si consuma giorno per giorno il dramma di una comunità che vive una guerra quotidiana tra salute e lavoro apparentemente senza vie d’uscita. Grande merito dunque a questa compagnia che ha saputo portare in scena un dramma così profondo.
Enrico Cavallo – Sannio Teatri e Culture

Non è un “j’accuse” diretto a politica, manager o controllori. E’ oltre la querelle tra politica e magistratura. Lo spettacolo, scevro da facili ed inutili retoriche, fuori da risposte ideologiche e preconfezionate, va visto anche perché offre la speranza, forse i sogni dovranno essere diversi, restano però un orizzonte per cui valga, nonostante tutto, ancora sperare e lottare.
Marisa Paladino – Oltrecultura

Lavoro valido, con un crescendo interpretativo di Gaetano, che vuole prendere parola, restituire un sentimento di dolore e di impotenza insieme, quasi banalizzandolo nella monotonia quotidiana mentre racconta la sua vita in fabbrica.
Silvia Viterbo – Affaritaliani

Slc Cgil Puglia