Sono tante le discipline che si contendono il predominio sul cinema. Filosofia, letteratura, psicanalisi, sociologia e, a seguire, tutte le “-logie” del mondo.
Perché, a quanto pare, le chiavi di lettura a cui un film si presta sono molteplici e infinite, a seconda degli occhi e della sensibilità di chi guarda.
I pensatori più raffinati lo esaminano come se fosse un saggio di filosofia morale, andando a ripescare qualche pagina particolare di Aristotele o Kant. Gli amanti della psicologia chiamano in causa Sigmund Freud, che nel bene o nel male c’entra sempre, in qualsiasi contesto lo si vada a collocare. E poi ci sono i sociologi, che si compiacciono nell’indagare le dinamiche sociali, talvolta meravigliosamente rappresentate da alcuni registi.
Tutte interpretazioni giuste e legittime, cui seguono riflessioni più o meno condivisibili e dibattiti sempre entusiasmanti.
Solo un dubbio s’affaccia alla mente. Non è che, per caso, stiamo dimenticando l’Arte? Se di quest’ultima il cinema ne condivide l’appellativo (essendo, per l’appunto, la settima), non dovremmo forse giudicare e valutare un film, partendo da alcune categorie estetiche?
Dunque.
Tutta questa premessa per dire che l’ultimo lavoro di Sorrentino, La giovinezza, a me è piaciuto. Un piacere non della mente, ma del cuore, come dinanzi a quadro del manierismo fiorentino o a un romanzo del decadentismo italiano.
È vero, probabilmente non dice nulla sul piano del contenuto, con i suoi dialoghi troppo asciutti e un languore che risulta persino irritante (ma poi, oggi di che cosa dovrebbe parlare un film italiano, se non del nulla che si respira ad ogni piè sospinto?)
Ciononostante, resta un film oggettivamente BELLO. Artificioso, ridondante e sovraccarico, ma proprio per questo oggettivamente BELLO. Perfette le inquadrature, struggenti i giochi di luce sui corpi dei protagonisti, inappuntabile la fotografia.
E il cinema non è innanzitutto questo? Cioè campi, primi piani, luce e fotografia, ancor prima della storia?
Invece, “The Tribe” di Myroslav Slaboshpytskiy non mi è piaciuto per niente, seppur accolto dalla critica come il film che avrebbe cambiato il modo di fare cinema.
Senza dubbio, è un’opera che ha il potere di restare impressa nella mente degli spettatori per il suo stile dirompente, ma la voglia di fuggire a gambe levate dalla sala è, in alcuni tratti, irrefrenabile.
I protagonisti -lo ricordiamo- sono un branco di sordomuti, che inveiscono l’un l’altro con violenze e ogni sorta di oscenità. La storia è interamente rappresentata nella lingua dei segni, senza sottotitoli né sottofondo musicale, come accadeva nel cinema muto.
Per più di due ore, dunque, il pubblico resta incollato allo schermo, a guardare la misera vita dei protagonisti, senza poter cogliere fino in fondo le sfumature dei loro pensieri e dei loro sentimenti.
Che cosa ha voluto dimostrare il regista con questa sperimentazione? Che anche i disabili sanno essere bestiali e primitivi come i normodotati? Che, privandoci dei rumori del mondo, possiamo andare al cuore delle passioni umane e comprenderle pienamente?
Probabilmente, lo sapevamo già e ancor prima di questo “sacrificio”.
Ben vengano, dunque, le sperimentazioni nel cinema. Ma alcune di queste, per legge, non dovrebbero durare più di mezz’ora.