“Dalidà”, tante canzoni e poca passione

Di Dino Cassone

No, non ci siamo proprio. Con un personaggio così unico, una storia così intensa e drammatica si poteva fare certamente di meglio. Stiamo parlando del film “Dalidà”, diretto da Lisa Azuelos, andato in onda sull’ammiraglia della Rai e che ha deluso su quasi tutti i fronti le attese, almeno di chi scrive. Innamorato perdutamente di Yolanda Gigliotti, è stato un colpo al cuore assistere allo scempio andato in onda: una serie confusa e veloce di episodi in cui si salvano solo i momenti musicali. Momenti dove l’attrice protagonista (Sveva Alviti, la cui recitazione qualcuno ha definito “sontuosa”, a noi è sembrata – pur essendo affascinante – un ghiacciolo senza sciroppo) canta peraltro in playback – per fortuna – lasciandoci almeno sognare sull’ammaliante voce di Dalidà.

Il biopic comincia – sulle note di “Ho difeso il mio amore” – il 26 febbraio 1967, giorno in cui la cantante, nata al Cairo da genitori emigrati dall’Italia, tenta, a trentaquattro anni, il suo primo suicidio, chiusa nella stanza 410 dell’hotel Principe di Galles a Parigi dopo aver appeso sulla porta un biglietto su cui è scritto “Si prega di non disturbare” e ingerendo farmaci. Luigi Tenco (interpretato da Luigi Borghi), con cui aveva da poco partecipato al Festival di Sanremo con la splendida ma non compresa “Ciao, amore ciao” e ingiustamente eliminato dalla competizione, si è suicidato esattamente un mese prima, facendola piombare nella disperazione totale. I due avevano intrecciato una relazione talmente intensa – che nel film è liquidata troppo velocemente – che la morte di Tenco (sarà lei stessa a trovarlo senza vita nella stanza d’albergo), segnerà tutta la vita, artistica e sentimentale, di Dalidà.

Si ripercorre tutta la sua carriera – al fianco dell’inseparabile fratello-segretario-produttore Bruno (interpretato da Riccardo Scamarcio) attraverso un lungo flash back, partendo dagli anni ’50 quando la cantante si fa notare dal direttore Lucien Morisse (interpretato da Jean-Paul Rove), che diventerà anche suo marito e la lancerà dalle onde di “Radio Europe 1” in tutto il mondo. Una serie interminabile di successi, da “Bambino” (versione della napoletana “Guaglione”), a “Come prima”, da “Romantica” a “Garde-moi la derniere danse”, solo per citarne alcuni.

Un mese dopo essersi sposata Dalidà incontra e s’innamora del giovane e bellissimo pittore Jean Sobieski, con cui comincia il suo periodo bohemien che coincide con l’apice del suo successo, vincendo, infatti, il disco di platino per aver venduto 10 milioni di dischi. Nel frattempo la sua nuova fiamma è Christian de la Mazière, che precederà Tenco e al quale seguiranno, in una sequenza impressionante – tanto che si ha l’impressione di una mangiatrice di uomini, e siamo stati buoni – il troppo giovane Lucio (Brenno Placido), appena ventiduenne, del quale resterà incinta, ma abortirà per non suscitare troppo scandali, e quindi Richard Chanfray (Nicolas Duvauchelle), con il quale intreccerà una storia tormentata più dai vizi che dall’amore. Nel 1977, quando la carriera di Dalidà è sorprendentemente ri-decollata (vince il disco di diamante: 86 milioni di dischi venduti ovunque), tenta il suo secondo suicidio (ma si capisce nel film? O ce lo siamo persi nel delirio del montaggio?), salvandosi ancora una volta. Si giunge così al 1986, Dalidà si reca in Egitto per girare il film “Il sesto giorno” di Chahine: ritornare nei luoghi dell’infanzia la turba non poco, così, la notte del 2 maggio 1987, architettando un piano preciso, resta da sola nella sua villa della rue d’Orchamps, per poter finalmente porre fine ai suoi giorni disperati, ingerendo un cocktail di barbiturici. Sul comodino un solo biglietto: «La vita mi è insopportabile. Perdonatemi». Lo stesso perdono che dovrebbe chiedere la regista Azuelos per aver girato un film con pochi palpiti emotivi che invece il materiale a disposizione avrebbe permesso.

Dino Cassone