“Mommy” di Xavier Dolan. Con Anne Dorval, Suzanne Clément e Antoine-Olivier Pilon

di Carmela Moretti

di Carmela Moretti

Per vincere il Premio della Giuria al Festival di Cannes in ex aequo con Godard, vantando un’invidiabile sicumera, servono padronanza del mezzo cinematografico e una passione sconfinata. Il venticinquenne Xavier Dolan possiede entrambe le qualità, avendo già realizzato sei lungometraggi con i quali ha acceso su di sé i riflettori di tutto il mondo. Ha iniziato la carriera da regista nel 2009 con il film “J’ai tué ma mère”; un lavoro dissacrante e coraggioso, che stupì pubblico e critica per una profondità inversamente proporzionale alla sua età (all’epoca, Xavier aveva 19 anni). Ora, con “Mommy” -che è nelle sale italiane in queste settimane prefestive- il giovane canadese torna a scavare con impeccabile realismo negli abissi della psiche umana, affrontando tematiche di durissimo impatto (non proprio natalizie, a dir la verità): la disabilità psichiatrica e un amore morboso tra madre e figlio.

In un angolo del Québec, una giovane ed esuberante madre -ancora una volta, l’attrice è l’ottima Anne Dorval- prova a “educare alla normalità” il figlio Steve, un turbolento quindicenne affetto dalla sindrome da deficit di attenzione. Con difficoltà, i due cercano di far quadrare i conti e trovare un equilibrio esistenziale, nel quale s’inserisce come un angelo mandato dal Cielo la vicina di casa, Kyla. Il film inizia in maniera piacevole e vorticosa, forse con qualche eccesso di volgarità, e nei primi minuti ha quasi i toni di una commediola “all’americana”. Solo un espediente registico, utilizzato da Xavier in maniera magistrale, fa presagire che la storia potrebbe di punto in bianco sterzare e trasformarsi in “altro”: quando si vuole andare al cuore dei sentimenti e rappresentarne tutta la drammaticità, il formato si restringe e lo spettatore è costretto a non indugiare su particolari inutili. Difatti, tra discussioni violente e gesti di autolesionismo, la vicenda si colora delle tinte fosche di una tragedia greca, in cui tutti i personaggi sono un po’ eroi e un po’ perdenti. “Non esiste una mamma che smette di amare il proprio figlio”, sussurra Diane a Steve, riportando l’attenzione del pubblico sul sentimento più grande e ambiguo di tutti i tempi (da Medea alla mamma del piccolo Loris, l’amore materno merita una riflessione costante). Il finale, per fortuna, fa splendere una luce fioca in fondo al tunnel, smorzando il senso di amarezza. “Io ho ancora speranza”, dichiara Diane in conclusione, mentre Steve corre verso l’uscita della clinica psichiatrica, alla ricerca dell’agognata libertà. Forse, al netto di tutto, è proprio “Mommy” il più bel film di Natale in questo 2014: una storia originale, tempestosa e struggente su “un mondo senza speranza, ma pieno di persone che sperano”.

Carmela Moretti