Sergio Castellitto: la mia arte senza sotterfugi

(di Carmela Moretti)

Bifest Castellitto 2Nell’ambito del Bif&st 2014, è stato Sergio Castellitto a tenere la seconda lezione di cinema, dopo quella del premio Oscar Paolo Sorrentino. Così, rispondendo con ironia e naturalezza alle domande del giornalista Franco Montini e degli studenti, l’attore romano ha ripercorso la sua brillante carriera, partendo dalla prima esperienza con Marcello Mastroianni e Michel Piccoli fino ad arrivare al passaggio alla regia con il film “Non ti muovere”. Senza dimenticare l’esperienza della televisione, che a differenza di molti suoi colleghi egli non ha disdegnato, interpretando ruoli di grande successo come Padre Pio e Fausto Coppi. Ma soprattutto, nel suo intervento, l’attore è più volte ritornato sull’importanza di coniugare talento e volontà per quanti intendano occuparsi di arte e di spettacolo.
Poi in serata, Sergio Castellitto ha ricevuto il premio Federico Fellini Platinum Award dalle mani del regista che l’ha scoperto, Ettore Scola.

 Qualche tempo fa hai dichiarato: “Quando comincio a recitare sento l’avvicinarsi di un pericolo. E questo pericolo è provocato anche dalla paura di non farcela”

Per un artista la paura è l’essenza, il motore che spinge a superare il terrore di essere inadeguato. L’inadeguatezza di fronte all’ostacolo è in qualche misura la prima prova di un talento. Bisogna diffidare di chi scende in campo con troppa sicurezza, perché sta sicuramente riproducendo uno stereotipo

Anche tu, come tanti altri attori italiani, a un certo punto sei passato alla regia. C’è una sorta insoddisfazione da parte degli attori italiani rispetto a ciò che il cinema offre?

Non è tanto l’insoddisfazione di quel che ti viene offerto a determinare questo passaggio, anche perché da questo punto di vista non mi è mancato niente, ho fatto circa 70 film, avendo la fortuna di lavorare con grandi registi italiani come Scola, Monicelli, Archibugi, Tornatore. In realtà, è un’intenzione a determinare il passaggio. Forse, col tempo ho scoperto di non essere solo un attore ma -come dire- un artista

Attori e artisti si nasce o si diventa?

Si scopre di esserlo, ma in qualche modo si nasce. Desiderare di esprimersi, oltre ad essere un gesto di nevrosi e di narcisismo, è anche un gesto di entusiasmante disperazione. Io non sono un figlio di artisti ma nasco in una normale famiglia italiana. Per caso, incontrai dei giovani allievi della Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e cominciai a frequentarla, sebbene io lavorassi in un’azienda e fossi stato destinato a una vita diversa. Ma ho voluto rompere quel vetro

Quanto conta la volontà nel tuo lavoro?

La volontà conta -almeno all’inizio- in tutti i mestieri legati all’esprimersi. Questi nascono da un desiderio, ma anche da una necessità. Chi ha talento è quasi chiamato a doverlo esprimere

La sua prima esperienza è stata con Marcello Mastroianni e Michel Piccoli nel film Il generale dell’armata morta. Per un attore esordiente, come è stato mettersi a confronto con due grandi “mostri” del cinema?

Frequentavo ancora l’Accademia e mi ritrovai tra le montagne abruzzesi con Mastroianni e la Piccoli. Se l’Accademia per me è stato il luogo della formazione, quell’esperienza è stata la specializzazione, una sorta di fronte di guerra

Nel percorso di un attore c’è sempre un film che segna la svolta. Qual è il film che per te ha segnato un passaggio?

Sicuramente, ci sono stati tanti film che hanno segnato un passaggio di coscienza, ma quello decisivo per me è “Non ti muovere”, perché segna anche il mio passaggio alla coscienza di voler essere un cineasta.

Colgo l’occasione per far riferimento allo spettacolo “Le tre sorelle” di Cechov, un’esperienza importante per te…

Sì, importante anche dal punto di vista della prole. Mi sono innamorato in quella occasione di una giovane attrice che era una stella nascente del teatro italiano, Margaret. Poi è diventata la scrittrice che tutti conoscete, trovando anche lei la sua vocazione e dannazione. E ora siamo ancora qua

Sei uno di quegli attori che non amano rivedersi?

No, a me piace. Quando becco un mio film mi diverto a ricordare il giorno in cui ho girato quella scena, che cosa mi aveva fatto arrabbiare. Adesso spero che i miei figli si degnino di vedere i miei film, ma niente…vedono quelli di Sorrentino, c’è poco da fare

A proposito, tuo figlio Pietro sta iniziando la carriera d’attore, non so se con la tua benedizione.

Anche qui il discorso è sempre lo stesso: che lui scopra di avere davvero il desiderio e il talento per poterlo fare. Ma io sono un padre all’antica. Gli ho detto: “Vuoi fare l’attore? Va bene. Ma laureati”

Come si gestisce il successo? Alcuni tuoi colleghi dichiarano di viverlo male.

C’è tanta retorica intorno a questa cosa. Io ho vissuto male soltanto l’insuccesso. Mi ha sempre fatto piacere quando la gente mi ha tirato la giacca, mi ha chiesto un autografo. Bisogna vedere, però, su che cosa si costruisce il successo. Esso ti dà piacere se è determinato dal talento, perché ti rende fiero.

Non ti muovere, come ti è venuta l’idea di tirar fuori un film da quest’opera di Margaret?

È venuta naturalmente. Margaret ha cominciato a scrivere il romanzo e io ho avuto il privilegio di essere il primo a leggere quelle pagine. Inconsciamente ho cominciato a vedere questa scrittura che è molto visionaria, procede quasi per immagini. Poi ho messo i visi e i corpi al posto di quei personaggi. Per Timoteo, per esempio, inizialmente avevo pensato a John Malkovich. Poi, continuando a scrivere la sceneggiatura e cogliendo la potenza del personaggio ho pensato “col Cavolo che lo faccio fare a lui. No, lo faccio io”

Carmela Moretti