Vivere o morire in scena? Questo è il problema

Di Maria Giaquinto (coordinamento spettacolo)

Di Maria Giaquinto
(coordinamento spettacolo)

Morire impiccati durante una finzione scenica. Non accade in un film di Hitchcock o in un romanzo di Patricia Highsmith. E’ cronaca di pochi giorni fa, quando un giovane attore di appena 27 anni, Raphael Schumacher, è rimasto strangolato mentre rappresentava un’impiccagione durante una performace sperimentale in un teatro di Pisa.
E’ stata una spettatrice, neolaureata in medicina, poco dopo mezzanotte e mezzo, ad accorgersi che qualcosa non andava. L’attore, con la testa reclinata e il volto coperto da una maschera, tremava appeso alla corda legata a un albero nel cortile dello spazio culturale. Immediati i soccorsi e il trasferimento in ospedale, ma l’attore, ormai in coma, è deceduto.
Si è trattato, con ogni probabilità, di un gravissimo incidente sul lavoro, a cui però si è dato ben poco rilievo. Forse perché, in fondo, quello dell’attore non è considerato un lavoro a tutti gli effetti, tantomeno rischioso.
Del resto, non si spiegherebbe altrimenti l’anomala situazione degli artisti in Italia, cui non è riconosciuto alcuno statuto sociale, né alcun tipo di welfare adeguato a sostenerne i problemi di salute, maternità, vecchiaia, invalidità, sicurezza.
Una situazione che produce sfruttamento, sottoccupazione, lavoro nero, mancanza di assistenza e previdenza sociale, di sicurezza, determinando condizioni di vita estremamente precarie se non di esplicita indigenza.
Una situazione tutta italiana, che si protrae da infiniti anni, nonostante le normative europee in materia indichino chiaramente la necessità di elaborare leggi specifiche a tutela degli artisti, in quanto cittadini e lavoratori dello spettacolo.
Una situazione aggravata ulteriormente dall’esiguità di risorse stanziate per questo settore, in cui si assiste, peraltro, a differenze abissali tra i compensi delle “star” televisive e quelli dei tanti artisti che lavorano nell’ambito dello “spettacolo dal vivo”, finanziato scarsamente e malamente da svariati enti pubblici. Mentre da anni la CGIL invoca una legge specifica che stabilisca diritti e doveri, tutele e previdenza, certificazioni e competenze per gli artisti.
Nonostante tutto, i cittadini artisti di questo strano Paese, continuano a operare sopportando condizioni di lavoro indegne per un paese civile, continuando a tenere in vita con enormi sacrifici la creatività e la ricerca nel teatro, nella danza, nella musica, nella scrittura e composizione. Forse perché questo è un lavoro “vocazionale”, in cui ci si identifica totalmente, a scapito della propria stessa salute e sicurezza. Un lavoro in cui si può anche morire in scena.
In tanti sono esposti a rischi sul lavoro, non solo noi artisti. La differenza sta nel fatto che, rispetto ad altri, il nostro “lavoro” non è riconosciuto come tale. E’ questa la differenza.
Anche gli artisti muoiono, come ogni creatura a questo mondo. L’arte, quando è vera, onesta, sincera, si tramanda, invece, sopravvive alla morte dell’uomo, continua a parlarci, a raccontarci storie, a commuoverci, a emozionarci, accompagna ovunque la vita che continua, per il povero e per il ricco, per il felice come per l’infelice. Per questo, credo, bisognerebbe pensare, ogni volta che un artista scompare, che senza bellezza, senza creazioni dell’ingegno e del cuore, la vita sarebbe vuota, anche possedendo immense ricchezze materiali. Ricordiamocelo anche per quelli come Raphael, morto impiccato per amore del Teatro.

Maria Giaquinto