Abbiamo trovato “Anna” ma abbiam perso Ammaniti

Di Dino Cassone

Di Dino Cassone

Uno dei talenti puri della narrativa degli ultimi vent’anni. Eppure c’è qualcosa che non va nella vena creativa di Niccolò Ammaniti. Intanto nel lungo intervallo tra il penultimo e l’ultimo romanzo: cinque anni. Senza considerare che “Io e te” non è nemmeno da ritenersi romanzo, viste le poco più di cento pagine di cui è composto. Poi nel costruire storie grottesche e folli cui ci aveva abituati con i suoi “Branchie”, “Fango” e “Che la festa cominci”, oppure torbide come “Io non ho paura”, “Il momento è delicato” e “Come Dio Comanda” (uno dei pochi premi Strega meritati, a nostro parere), o ancora con storie romantiche e di respiro positivo come “Ti prendo e ti porto via”.

Già con “Io e te”, l’autore romano, pur ritornando sulla sua “scena preferita del delitto” e cioè il mondo dei bambini e degli adolescenti, l’ispirazione pareva vacillare. Sensazione confermata con l’ultimo romanzo intitolato “Anna”: notevolmente sottotono. Ambientata in una Sicilia post apocalittica, una sorta di “The day after” immerso in un sugo meridionale, è la storia di una ragazzina di tredici anni, Anna appunto (un personaggio comunque affascinante), che è sopravvissuta allo sterminio di un misterioso virus, assieme al fratellino Astor. Quando quest’ultimo è rapito da una banda di ragazzini (gli unici risparmiati almeno fino alla pubertà, mentre gli adulti sono ormai morti), la ragazzina, munita solo di un quaderno ereditato da sua madre con le indicazioni per sopravvivere alla catastrofe, parte alla sua ricerca, tra vegetazione bruciata e paesi deserti con costruzioni in rovina. E qui comincia l’avventura: la scoperta della trasformazione personale e soprattutto di un nuovo futuro e di una nuova vita, che «non ci appartiene, ci attraversa».

Leggendo il corposo tomo, che, sempre a nostro parere, è troppo lungo, vengono alla mente tanti riferimenti e somiglianze: da “Il signore delle mosche” di William “Nobel” Golding all’avventuroso Jack London, ma soprattutto “La strada”, magari nel finale aperto alla speranza: attraversare lo stretto e lasciare la Sicilia per vedere se l’epidemia ha colpito anche là. Anche se, e chi l’ha letto può confermarlo, siamo ben distanti dal gioiello letterario di Cormack Mc Carthy. Resta solo il sapore della scrittura, sempre di ottimo livello e sempre scorrevole, che ci regala il meglio di sé nei siparietti horror (per cui lo amiamo follemente) e assolutamente “pulp”, come le descrizioni della peste e delle sue manifestazioni cutanee, o quelle dei corpi in putrefazione. Talmente cinematografiche e d’impatto, da farci spuntare una lacrima nostalgica per quello che Ammaniti ha già fornito prova di essere: il deus ex machina di una nuova letteratura italiana, meno legata alle radici “veriste” e “storiche” e più proiettata a un ampio respiro internazionale.

Dino Cassone