“Gianna. Una storia vera”, per affermare il diritto all’identità di genere

Di Dino Cassone

La scena è spaccata a metà. Da una parte Gianni, 40 anni, uomo infelice e tormentato, che si guarda ogni mattina allo specchio senza mai riconoscersi. Innamorato perso del suo vicino di casa, il giovane e aitante Andrea, talmente tanto da convincersi – per non soffrire – che quel ragazzo non esiste e che è meglio tornare alla sua “piccola e triste vita di merda” perché «in fondo, ho sempre vissuto bene così, da solo, con le mie cose, la mia vita». Quanto di più falso.

Dall’altra parte c’è Gianna, 40 anni e un fisico mozzafiato, che tutte le mattine guardandosi allo specchio è felice: si piace, si riconosce ed è una persona vincente. Anche lei ha una cotta per il vicino che – guarda caso – è lo stesso Andrea. Già, ma quale delle due parti di palco riflette la verità vera?

Con “Gianna. Una storia vera”, andato in scena all’auditorium Bianco-Manghisi di Monopoli, i ragazzi del laboratorio di scrittura diretto da Dada Medico e targato “Allegra Brigata”, hanno restituito al mondo un frammento di vita vissuta, amara e allo stesso tempo bellissima, quella di Giovanni, “Gianni” Vacca. Gianni che ha dovuto lottare per la sua libertà di “essere” in un periodo (era nato nel 1939) oscuro quando parole come “identità di genere” o “transgender” sembravano aliene.

I ragazzi (Valentina Aprile, Giovanni Cavone, Marilisa Satalino, Anastasia Giangrande, Laura Alò, Claudio Catucci ed Elena Todisco, gli ultimi quattro anche in scena in ruoli secondari) che ci hanno sempre abituato a rappresentazioni brillanti ma sempre strizzando l’occhio alla riflessione, questa volta hanno lasciato il pubblico senza fiato, sferrando un calcio alla bocca dello stomaco con un testo impeccabile, ruvido come la carta vetrata che ha raschiato l’ultima patina delle nostre coscienze. Un tema, quello della sessualità, ancora oggi troppo rognoso: avere la certezza che il cervello si trovi in un corpo che non è quello voluto, in una “gabbia sbagliata”; il terrore di apparire agli altri come diversi, essere etichettato e subire la gogna pubblica; il dovere imprescindibile di vivere in piena e totale libertà. E «che ridessero pure, gli altri».

Il risultato è stato uno spettacolo perfettibile, soprattutto in alcune scelte di regia, dove azzeccatissima è invece è stata la scelta di affidare a due attori più esperti il ruolo dei protagonisti: dinamica e imponente – anche fisicamente – la presenza scenica di Rose Mary Nicassio nei panni dell’alter ego femminile; intenso e delicato Nico Sciacqua in quelli tormentati di Gianni/Gianna, che ha saputo con garbo evitare il tranello del cliché gaio. Sua l’emozionante e liberatoria frase finale, che ha rimbombato in sala come l’urlo di una battaglia ancora lunga e che auspichiamo persa da parte di tutti i falsi moralisti: «Io sono Gianni, e sono una donna bellissima!».

Dino Cassone