“Il Mostro”, la poesia operaia di Vincenzo De Marco

Di Dino Cassone

La definizione di “Poeti operai” si deve al genio di Pier Paolo Pasolini, che volle distinguere coloro che componevano versi per professione da coloro che invece intingevano il loro inchiostro nel grasso, nella fuliggine e nel sudore che si portavano addosso dopo un massacrante turno in fabbrica. Lunga la tradizione di questa importante categoria di poeti, che ebbe il suo periodo di massimo fulgore negli anni ’70, e non a caso. Importanza che già nel 1962 Italo Calvino aveva sottolineato affermando che «Se fabbriche e operai occupano poco posto come paesaggio e personaggi nella storia letteraria, non si può dimenticare quale posto imponente hanno come paesaggio e personaggi della storia delle idee degli ultimi cento anni. L’operaio è entrato nella storia della cultura come protagonista storico-filosofico, mentre prima succedeva il contrario».

In Puglia, a tenere alto lo stendardo di questi uomini-artisti dal valore doppio, è il grottagliese Vincenzo De Marco, operaio siderurgico di quarantuno anni che ha recentemente ripubblicato – in versione riveduta e impreziosita dalla prefazione di Alessandro Marescotti, l’introduzione di Laura Tussi e la postfazione di Valerio Tambone – una raccolta di componimenti che ha un titolo che lascia poco spazio alla fantasia: “Il Mostro. Versi di rabbia e d’amore”, pubblicata dalla barese Les Flaneurs Edizioni nella collana “Rive Gauche”. L’Ilva – all’interno della quale ci conduce l’autore afferrandoci con la sua mano coriacea – e l’amore viscerale per la sua terra fanno da sfondo, ingombrante, a questi 62 componimenti suddivisi in tre parti: “Vita operaia”, “Naturalmente vita” e “La vita, le storie”.

I versi di De Marco – «poeta di storie sbagliate» -, intrisi di collera e sofferenza, colpiscono duramente in faccia proprio come l’acciaio prodotto in quel «mostro al di là della strada, muto e silenzioso», per alcuni, «assordante, chiassoso, gassoso e arrogante» per altri; là dove si consuma, quotidianamente, «orrore moderno. Orrore continuo». Spesso invece, soprattutto nella seconda e nella terza parte, le parole dell’autore diventano carezze che vanno dritte al cuore, quando l’operaio ritorna ad essere dolcissimo padre e quando i suoi occhi, liberati dalla fuliggine opprimente e dal sudore, contemplano con infantile meraviglia le bellezze di una Terra, la Puglia: madre per destino naturale e matrigna non per sua scelta.  

Dino Cassone